Offenbar Nicht

Il Sudtirolo è un piccolo paradiso italiano, nel senso che con l’Italia c’entra veramente poco. L’ordine, la precisione, l’attenzione con cui si vive da quelle parti non hanno molto in comune con l’entropia vivace di cui è costituito il  popolo italiano. Ce ne si accorge, ad esempio, girando per Bressanone: ti circondano vie essenziali, costellate di case modulatamente disposte, capaci di integrare l’architettura tradizionale con l’ultimissima eco-certificazione di classe A++, ti circondano negozietti di sculture in legno e boutique di fascia proibitiva.
Del resto è il sogno mitteleuropeo; è l’avanzata democrazia moderna che fa i conti con una tradizione da cartolina; è la regione autonoma della società candida, dove tutto è profumato, tutto è ecologico e a tutti è garantito il benessere dell’apparenza: portentosi ariani che respirano aria pulita e salutano i monti, forse più per stupire i turisti in giacca da sci che per romanticismo. Persino la bionda gioventù cresce coscienziosa ed adeguata agli standard europei: muri puliti, centri giovanili altamente frequentati, gruppi metal quasi di circostanza e soprattutto pensiline inattaccabili.
Pensiline di legno intagliato e decorato con motivi floreali. Pensiline che costellano le cittadine: solo nei paesini più vicini alle montagne non ci sono strutture lignee, ma semplici pali, comunque intonsi. Ad uno di questi pali di villaggio può capitarti di vedere un vecchio dalla barba tagliata male, che estrae un pacchetto di Marlboro classiche da una giacca larga e rovinata, se ne accende una e si aggiusta gli occhiali sudici e decisamente fuori moda sul naso.

Un giorno, accanto al vecchio, appoggiata al muro qualche metro più in là, stava una ragazza sui sedici, alta, con occhiali squadrati dalla spessa montatura, un berretto alla moda, le cuffie bianche nelle orecchie e i capelli puliti puliti che scendevano paralleli e simmetrici dal berretto. Io, che facevo l’autista di autobus per il Verkehrsverbund Südtirol già da nove anni, ne avevo viste tante di scene così, fatte di due persone diverse e silenziose che ti aspettano immobili sotto la pioggia. Quel giorno, però, avevo capito che c’era qualcosa di misterioso, qualcosa d’altro.
La nebbia mi ha sempre dato particolari  presentimenti, particolari pensieri, e quel giorno c’era una nebbia cattiva; una nebbia grigia e impalpabile, ma cattiva. Le due sagome si stagliavano cupe nell’inquietudine. Condussi l’autobus con solo loro a bordo fino a Bressanone centro, accompagnato solamente dal ronzio cullante della radio locale, che quasi rimbombava nel silenzio del pullman. Là, davanti ad una caratteristica pensilina, mi accorsi che era morta.
Stava seduta all’ultimo posto, in fondo a destra, con la mascella digrignata e la testa appoggiata plasticamente al vetro, le palpebre bianche. E la radio ronzava. Me la ricordo bene: guardava fuori dal finestrino con gli occhi chiusi per sempre. E la radio ronzava. Anossia cerebrale, poi collasso cardiovascolare. E la radio ronzava. Avvelenamento da cianuro. E la radio ronzava.

In qualche modo la colpa doveva essere del vecchio. Lo pensammo tutti all’inizio. La sua barba, le sue sigarette, la sua giacca, i suoi occhiali: tutto ci parlava di sporco. Tutto presentava ai nostri occhi un’idea di diversità. Stonava con l’ordine di quei villaggi, sembrava avere la pretesa, la presunzione di non avere a che fare con gli addobbi natalizi e gli impianti sciistici. In una comunità ristretta e restringente è naturale accollare colpe inspiegabili a uomini che non ci si riesce a spiegare.
Io per primo non me lo spiegavo come potesse essermi morta dietro alle spalle una ragazzina, cosa le avesse messo in bocca quel cianuro, con che forza abbia taciuto le sofferenze, lasciandosi ammazzare dal masticare. Così anch’io sacrificai l’inspiegabile per l’irrazionale e decisi che il vecchio era un pazzo omicida, sebbene non avesse avuto la possibilità di approcciare in nessun modo la ragazza, che era seduta dietro di lui, con la musica alta nelle orecchie. Anche dopo il decesso.
La rabbia, la voglia di strangolare l’anziano – o meglio – di farlo diventare un caso mediatico, di torturarlo con le telecamere, mi fanno ancora vergognare. Perché l’ottico del villaggio era lo zio della piccola. Perché quel mattino la piccola fu vista introdursi nell’ufficio dello zio chiuso per ferie.  Non era difficile capire che se ne era uscita con qualcosa che solo un ottico poteva avere in quel villaggio.

Dopo il processo lasciai il mio lavoro  e lasciai l’Alto Adige. Della valanga di dubbi che mi percorreva la testa in quel periodo, ricordo solo che quando la verità fu chiara, mi accorsi che non c’è niente di romantico nell’ammazzarsi a sedici anni. Niente di poetico nel farsi raggelare il corpo su di un autobus che unisce le valli della provincia. Quando la verità fu chiara, mi accorsi che lei non aveva nessun valore stoico per il quale sottrarsi all’esistenza. Nessuna verità per la quale morire. Nessuna protesta sociale. Nessuna tristezza di paese. Niente, se non case tradizionali, teleriscaldamento e sculture di legno. Niente, se non una società perfetta apparentemente. A sedici anni si pretende verità, non ci si accontenta dell’apparentemente. O cresci a bretzel e bugie o muori suicida col cianuro.
Col cianuro, come Eva Braun.

 

 

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