EFGH

“Amico, infondo è meglio se cambi aria per un po’ di tempo, non è più sicuro questo posto” sentenziò Alberto, agitato. L’aria era fredda, e le parole si spezzavano per il tremolio delle sue labbra. Era solo ottobre, ma già gli alberi davano segni di cedimento.
“Giurami che verrai a trovarmi, Alberto, io da solo a Roma non ce la faccio”.
Alberto non giurò, ma lo sarebbe andato a trovare, di sicuro. Erano migliori amici fin dai tempi del liceo, quel liceo scientifico vicino alla stazione, quello dove il tempo passa. Adesso Giacomo doveva andarsene. Doveva andarsene. Gli arresti domiciliari erano peggio di quanto si aspettasse 5 anni fa, quando cominciò tutto. Lui non voleva ucciderla, non lo fece apposta.
Il freddo non si prendeva delle pause. Non c’era nessuno in giro, a quell’ora. Alberto e Giacomo stettero a guardarsi per 10 minuti. Non una parola. Non una parola. Ormai si capivano. Si erano sempre capiti, in fin dei conti.
Alberto tirò fuori dalla tasca una scatola di sigari. Se ne accese uno, poi decise di piangere. Piangeva per Giacomo, evidentemente. Lui, in fondo, aveva una famiglia e una figlia di 9 anni, Giacomo invece era rimasto fregato da quella storia, non era più riuscito a vivere, stop, una carriera nell’esistenza bloccata a 35 anni. L’unica sosta dal malessere erano gli incontri giornalieri con Alberto, un giorno una passeggiata lungo l’Arno, un giorno in piazza del Duomo, l’altra a guardar le stelle.
Anche Giacomo si mise a piangere. Lo faceva spesso, in realtà. Non era colpa sua, eppure tutti ne erano convinti, i giornali gridavano al criminale, ogni giorno, e ogni anno, puntualmente, si inventavano delle prove schiaccianti.
Alberto tirò la prima boccata, e poi si sedette, sul marciapiede di via Bellini, l’inutile marciapiede di via Bellini. Non vedeva più ridere l’amico da troppo tempo, proprio Giacomo, che ad ogni festa doveva per forza raccontare le sue “cazzo di barzellette”.
Alberto guardò l’orologio, erano le 5 di notte, ormai.
Giacomo si accorse che mancavano cinque minuti, che poi sarebbero passati a prenderlo.
Alberto si sdraiò sul marciapiede di via Bellini, l’inutile marciapiede di via Bellini. E poi chiuse gli occhi.
Giacomo sentì il rumore di una macchina, la vide, la vide girare l’angolo di Via Perosi, era una volante della polizia, era ora di andarsene, per sempre.
Alberto sentì due colpi di pistola. Aprì gli occhi.
Giacomo stava cadendo in avanti, colpito da due proiettili, sparati alla schiena.
Alberto si alzò gridando, gridando qualcosa che nessuno capì.
Giacomo era ormai morto, sul marciapiede di via Bellini, l’inutile marciapiede di Via Bellini.
Alberto non ci voleva credere. Non ci si può vendicare di un innocente, pensava. Non era giusto. Non era stato il suo amico, o comunque non lo aveva fatto apposta, cosa stava succedendo?
La polizia partì all’inseguimento, non si fermò nemmeno per sincerarsi delle condizioni di Giacomo.
Alberto teneva fra le braccia Giacomo, piangendo. Era morto. Non avrebbe detto più nulla. Nessun ultima parola. Nulla. Alberto non riusciva a capire. Non se ne capacitava proprio. Che vita è quella in cui puoi morire in via Bellini?
Il freddo non era amichevole quel giorno. Alle 6 di notte Alberto era ancora lì, con Giacomo.
E non avevano più 16 anni.

 

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

*

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>