All’ultimo

“Dai amore, te lo chiedo per favore, devi esserci per forza, dai, entro le undici riesci ad arrivare!”
“Non lo so proprio, ho il turno”
“Ma è la notte di capodanno!”
“Eccheccazzo succede di tanto importante? È una mezzanotte come  un’altra, al massimo mi perdo un trenino, o un bicchiere di spumante”
“Sei il solito!” chiuse seccata Federica.
Il loro fidanzamento durava ormai da 2 anni e mezzo, da quando Domenico si dichiarò, esattamente al centro di Piazza Vecchia, con la neve che cadeva, e i passanti che increduli ascoltavano, quasi fosse  un gesto ormai antico, lontano, o forse semplicemente troppo teatrale per un normale sabato pomeriggio.

Finita la telefonata, rimase a pensare qualche minuto, fissò il telefonino e lo spense, si sentiva uno scemo, in quel momento, un vero scemo, faceva il  volontario alla Croce Rossa, e si era proposto  proprio per la notte dell’ultimo dell’anno, malgrado Federica non avesse gradito il gesto, per quanto generoso fosse.
“Senti, Domenico, quanti anni hai?” chiese, avendo compreso tutto, il medico di turno
“Quanti anni ho? Quasi ventuno, ormai”
“Perché sei qui? La tua ragazza non mi sembrava molto contenta, su vai”
“E dove vado? Non posso andarmene”
“Fidati di me, ti copriamo noi, guardaci, ormai siamo vecchi abbastanza, tu invece, dovresti goderteli questi momenti, non che il capodanno sia una festa così importante e particolarmente divertente, ma sono sempre momenti”
“Glielo ripeto, non posso, non sarebbe corretto, per tutte le persone che hanno bisogno di noi questa notte, e poi, non credo che riuscirei ad arrivare in tempo, sono andati a festeggiare in una casa in montagna, i miei amici”
Con lo sguardo sornione e comprensivo, un altro volontario, zitto fino a quel momento, si alzò, quasi fosse una creatura irreale, snaturata da tutto quel contesto.
“Ragazzino, alza quel culo da quella sedia, posa quelle carte che hai in mano, mettiti in tasca il sette di spade e fila via fino a dove devi andare, non perdere tempo, non rispondermi, fai quello che ti dico!”
Gli sguardi delle altre 5 persone presenti si fecero paterni, e Domenico quasi con gesti involontari seguì le istruzioni, compreso il sette di spade nella tasca.

Solo quando salì in macchina si rese conto di non aver nemmeno detto grazie, nemmeno di aver salutato, nemmeno di aver pensato che tutto quello che gli era appena capitato potesse essere un sogno.
Erano le 22.30, e certo da Loreto a Lizzola c’era almeno un’ora di strada, ma con quella neve così affannosamente accrescitiva nulla faceva sperare in un arrivo nel 2013, anzi, un malaugurato ritardo di un minuto  avrebbe significato un ritardo di un anno, e certo Federica gli avrebbe negato la parola per un mese, e certo la matematica cominciava a diventare fastidiosa.
Appena lasciò andare la frizione, carica di emozioni contrastanti, il suo storico Nokia N70 squillò. “Ma porca troia credevo di averlo spento” esplose incazzato sulle note di un banalissimo Nokia Tune, poi si decise a rispondere.
“Pronto”
“Domenico! Tutto bene?”
“Si Mamma, si, si, sono qua, in Croce Rossa”
“Ehi, non sei da Federica?”
“Anche tu?”
“Cosa dici?”
“No, lascia stare, Ma’, ti voglio bene, grazie degli auguri in anticipo, ciao ciao” chiuse quasi sorprendendosi dell’universalità del pensiero umano sulla sua situazione.
Scartato in un attimo il pensiero di rinunciare a quel folle volo  verso Lizzola, partì, con addosso un misto di frenesia e angoscia, mille pensieri per la testa , ma nulla di veramente chiaro.
La neve attaccava con tranquillità, e dire che ai tempi del Liceo non accadeva mai, si scioglieva sempre verso le sei del pomeriggio e addio possibilità di saltare scuola. Per un attimo immaginò il servizio di TV Bergamo, e il prefetto, che gioviale e con le rughe di chi ha ponderato una decisione per quasi vent’anni, risponde così alla domanda del cotonato presentatore: “Ci siamo accorti che la neve per le strade è molta, sfiora il metro di altezza, per evitare incidenti e complicazioni, è stato deciso, con la consultazione di Nevologi e meteorologi, che domani 1 Gennaio le scuole di Bergamo e Provincia rimarranno chiuse”.

Il breve siparietto ironico della sua mente gli permise di rilassarsi, era ormai ad Alzano Lombardo, ed erano le 22.40, e eccetto qualche scomposto pupazzo di neve, il mondo sembrava disabitato. Quel non movimento aumentava la sua euforia negativa. Le linee di divisione fra le corsie si prendevano delle pause, i cartelli stradali non dicevano nulla, se non di rallentare.
Il primo semaforo della nottata fu naturalmente rosso. E Domenico, nell’attesa del verde, si accorse che infondo qualcuno c’era, in tanta desolazione, una sorta di uomo che faceva l’autostop. Doveva avere circa settant’anni, probabilmente un barbone, in cerca di un posto caldo, o forse un vecchio perso, nei ricordi e nelle amnesie della sua età. Ai piedi aveva solo delle ciabatte, e dei calzoni lunghissimi, sporchi, probabilmente macinati dalla seconda guerra mondiale. La faccia era spaura, di chi è stato appena catapultato nel mondo, di chi non vuole accettare la realtà, o di chi semplicemente non ci capisce più un cazzo.
“Ehi, signore, vuole un passaggio?” chiese Domenico dopo esser sceso dall’automobile
“No grazie, amico, sto aspettando un amico”
Capì che l’uomo stava mentendo, forse involontariamente, forse annebbiato dall’alcol, o da una vita tremenda, o da semplicemente nulla, ma di certo non c’era nessun amico.
“Senta, credo di averlo incontrato il suo amico, mi ha detto di dirle che è rimasto bloccato dalla neve, in centro, a Bergamo, in piazza Garibaldi”
“O che peccato, vorrà dire che me ne tornerò a casa”
“Dove deve andare?”
“A Lizzola”
“A Lizzola?”
“Si, un giorno e sono lì”
“Senta, io sto proprio andando lì, venga con me, su, salga in macchina”
Il vecchio non disse più nulla e salì in macchina, sarebbe stata una nottata faticosa, e forse impossibile, pensava Domenico, con la mente altrove, alla Croce Rossa, al Vecchio, all’amico del Vecchio, a sua madre, e in particolare a Federica.
Alle 23 e 10 si trovavano già a Clusone e malgrado le domande che gli erano state fatte dal ragazzo il vecchio non accennava a nessun tipo di verso. Sembrava fosse in uno stato di rilassata stanchezza, schiacciato dentro dalla vecchiaia, o da qualche malattia mentale.
Il paesaggio cominciava a farsi montagnoso, i centri abitati erano sempre  meno, gli alberi invece crescevano in numero e in bellezza, calati in un contesto extra-urbano, in una sorta di rete magica che i due in automobile non riuscivano a percepire, o forse si?
I lampioni diminuivano ad ogni chilometro, mentre la percorribilità delle strade si faceva più difficile, e Domenico fu costretto a rallentare.
“FERMATI!” FERMATI!” gridò il vecchio improvvisamente
Domenico tirò il freno a mano, pur non avendo capito il senso di quell’urlo.
“Che succede?”
“GUARDA GUARDA GUARDA ” continuava ad alta voce il vecchio, scuotendosi come se la cintura di sicurezza fosse stata una camicia di forza.
“Li vedi anche tu? Lassù in cielo!”
Domenico guardò, lassù in cielo, ma non riuscì a vedere nulla, anzi, non c’era assolutamente nulla.
“GUARDA BENE, NON LI VEDI? QUEI DUE STANNO VOLANDO!”
Non vedeva proprio nulla, ma decise comunque di assecondare il vecchio, non poteva certo mettersi a discutere, Lizzola era ancora piuttosto lontano.
“Adesso li vedo anche io, e come volano bene, chissà come fanno”
“Basta volerlo”
“Già, basta volerlo”
“Un tempo anche io volavo”
“Le credo… però ora dobbiamo andare, è tardi”
“Io resto qua, Domenico” chiuse il vecchio uscendo di colpo dalla macchina. Nessuno saprà mai come facesse a conoscere il nome del ragazzo, quasi nessuno.
“Dove va? Dove sta andando?” chiese il ragazzo sconsolato  scendendo a sua volta per seguire i movimenti del vecchio.
Lo vide correre, in direzione di Clusone. Correva come un forsennato, un vecchio di settant’anni, di cui non si conoscerà mai il nome, la vita, i desideri. Ma ormai era lontano, nascosto dalla nebbia e dai fiocchi di neve che continuavano a scendere.
Domenico percorse a piedi un centinaio di metri, fino a che non scorse un uomo, seduto sotto la tettoia di quella che probabilmente era la sua casa, una vecchia cascina di campagna.
Aveva degli enormi baffi, era tutto imbacuccato, coperto da un enorme giaccone verde.
“Scusi, signore, ha visto passare di qui un vecchio, sui settant’anni? Di corsa?”
L’uomo sorrise, tanto assurda gli sembrava quella domanda.
“Ho visto soltanto tre persone volare, ma nessuno di loro stava correndo..”
Il ragazzo si stupì di quanto assurda fosse quella risposta, ma fece finta di niente.
“Ok, grazie, se vede un vecchio che corre ,però, mi prometta che lo ospiterà a casa sua, almeno per questa notte”
“Vada, tranquillo, ci penso io.. però aspetta ragazzino, non è che hai un sette di spade? I miei nipoti sono qui dentro e vogliono giocare a Briscola ma manca loro proprio quella carta”. Incredulo estrasse dalla tasca il sette di spade, senza riuscire a ricordarsi bene il perché l’avesse messa lì. La tese a quello strano uomo, di cui non riusciva a vedere la faccia, di cui non riusciva a scorgere le emozioni, poi corse verso la macchina. Dopo essere ripartito notò che sul sedile in cui era stato seduto il vecchio era rimasto qualcosa, una carta per l’esattezza, un asso di bastoni.
“Ma che cazzo hanno tutti con ste cazzo di carte?” disse cercando di ricordare le regole del sette e mezzo e spingendo sull’acceleratore. Si dimenticò con fatica del vecchio, temendo che potesse essersi trovato in pericolo, ma sperando il contrario, ovviamente.
Alle 11.40 era ad Ardesio, e già temeva  il peggio, era sicuro che non sarebbe arrivato in tempo, e che invece voleva sorprendere Federica, come non succedeva ormai dai primi mesi di fidanzamento. La sua pandina rossa cominciava a faticare, in quelle salite sempre più ripide, sempre più piene di curve, piene di risentimenti, piene di sentimenti.  Quante persone erano salite su quell’automobile? Quanti amici erano passati? Quante canzoni cantate, quante giornate perse, quanti cinema all’aperto, quanti quantitativi?
Quante volte la aveva riaccompagnata a casa? Quante volte, sceso da quella piccola macchinina, si era sentito soddisfatto, della vita in genere?
Le stelle cominciavano a qualificarsi, e le uniche luci artificiali erano ormai quelle dell’automobile.
I riflessi dei suoi sogni erano facilmente scorgibili negli anfratti rocciosi, nelle ombre della natura, nel nonsense di tutto quello che stava facendo.
Avrebbe voluto che quella sensazione non finisse mai, avrebbe voluto non dover rincorrere il tempo.
Alle 11.45 passò il cartello che dava il benvenuto a Gromo, probabilmente l’ultima località prima di Lizzola. Non sapeva se ce l’avrebbe fatta, sapeva solo che alla fine avrebbe pianto, comunque fosse andata a finire.
Proseguì il più veloce possibile, ma una volta arrivati al centro di Gromo, un’ uomo con un giubbotto catarifrangente, di un’arancione fastidioso,  gli intimò di fermarsi con ampi gesti.
Domenico scese dall’auto, preoccupatissimo per quello che avrebbe potuto sentire.
“Che c’è? Che succede?”
“Ragazzino, da questo punto in poi non si può più continuare in macchina”
“Ma sta scherzando? Io devo andare a Lizzola”
“Mi dispiace, ma in macchina non può proprio, ordinanza comunale”
“E come cazzo faccio? Dovrei riuscire ad arrivare entro Mezzanotte!”
“Ragazzino, o lei sa volare, oppure deve cominciare a correre e percorrere esattamente quella stradina nascosta dal salice, ma deve sbrigarsi”
Domenico guardò per qualche secondo l’uomo negli occhi, e con una piccola speranza in corpo, si mise a correre, senza dire nulla.
“Attento a non scivolare! ehi ti è caduta una carta! L’asso di bastoni! Come fai senza ehi! Domenico!” gridò l’uomo al ragazzo, che ormai era già perso nella foschia di quel 31 Dicembre, con la neve che cadeva, e nessuno per le strade, eccetto qualche scomposto pupazzo di neve, e qualche scomposto vecchietto, e qualche scomposto vigile urbano, e qualche scomposta incertezza.
Domenico cominciò a piangere come aveva previsto, il freddo, l’ansia, l’asma, tutto lo stava attraversando in quel momento, ma lui manco se ne accorgeva, tutto intento a voler arrivare alla fine.
Dopo 9 minuti circa, probabilmente i più veloci della sua vita, si trovò di fronte al cartello che segnava l’inizio di Lizzola. Non pensò nemmeno per un’ attimo di fermarsi a riprendere fiato, non pensò nemmeno per un attimo a quello che stava intorno, alla neve che cadeva, agli alberi scomposti, alle luci ingannevoli, alla luna assente.
Passata la chiesa si ricordò che le indicazioni del suo amico Lele suggerivano che la casa si dovesse trovare nei paraggi, che era facilmente riconoscibile da una strana staccionata in legno. La individuò quasi subito, era una sorta di villetta, con poche finestre, tanta desolazione, in un paesino frequentato di rado, forse a Natale, forse a Capodanno, forse in estate, forse sempre, forse mai.
Scattò, erano le 11.59 appena scoccate, e pensò di aver scritto lui la sceneggiatura di quella notte, era tutto troppo al limite, veramente troppo, tutto quell’affanno, tutto quella incandescente miscela di emozioni sarebbe dovuta scoppiare, e sicuramente una bomba l’avrebbe fatta esplodere, se il regista fosse stato lui.
Scavalcò la staccionata, e senza suonare aprì la porta, individuò la stanza da cui provenivano le voci, sentì un coro di persone “TRE”,  forse c’era quasi.
Stavano tutti a guardare il televisore la solita trasmissione con un nome di merda, era arrivato nel bel mezzo del conto alla rovescia. Federica si girò, lo vide e corse verso di lui, “DUE” continuavano gli altri senza aver notato l’arrivo dell’amico, i due si abbracciarono e “UNO” si baciarono, a lungo, mentre tutti intorno a loro esplosero, come se stessero esultando per l’avventura di Domenico, come se avessero assistito a tutto il suo viaggio e a quella folle corsa, come se avessero conosciuto il vecchio, l’uomo con il giaccone verde, il vigile, la stradina impervia, le bottiglie di bitter a terra, l’amaro in bocca, le calze bagnate, le scarpe sporche, i cani abbaiare, la luna guardare, i pupazzi di neve scomposti, il paesaggio morire, e nessuno volare, e nessuno volare.

 

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