La soglia

Avevano appena passato Caronte quando rimasero soli. Due figure avanzavano nell’oscurità. Sapevano entrambi che rimaneva solo una salita, una sola salita per rivedere il sole. Un uomo, e dietro di lui una donna. Camminavano senza guardarsi. Si trovavano laggiù perché lei era morta. Lui invece era vivo e vegeto. Lui era lì perché l’amava, quella donna. Aveva abbandonato i fiumi, i monti ed i campi della sua infanzia per rivederla. Era sceso nell’abisso perché sapeva che lei si trovava negli inferi. Era sceso ed aveva convinto gli dei a ridargliela. Aveva suonato la lira per loro e loro gliela avevano consegnata. Mentre tornava, però, non doveva voltarsi, doveva resistere alla tentazione di vederle il viso, il viso che per lui era tutto. Se si fosse voltato lei sarebbe scomparsa per sempre. Ormai erano giunti alla porta, la porta che separava l’inferno dal mondo, la porta da cui erano scesi nelle tenebre. Ma ora rivedevano la luce. C’erano quasi, finalmente.

I due non si erano ancora parlati. Avrebbero dovuto essere felici ma non lo sembravano affatto. Lui ci pensava da un pezzo: aveva visto i morti coprirsi il volto al suo passaggio, alcuni piangevano, altri scuotevano la testa. Persino Caronte gli era sembrato afflitto. Ma ora erano in prossimità della soglia, mancavano solo pochi passi…pochi passi ed avrebbe rivisto la luce. Sarebbe uscito gridando di gioia, lo avrebbero chiamato vincitore della Morte. Avrebbe rivisto la sua amata. Ripensò a quand’ era fanciullo, mentre si esercitava con il suo strumento e raccoglieva margherite sui monti della Tracia. Così la aveva conosciuta: le aveva regalato dei fiori e le aveva composto una poesia, bellissima. Faceva… com’è che faceva? Oh, non aveva importanza, ormai era passata. Passata, passata. Passata come lei. Rallentò l’andatura.

Cos’era la sua amata per lui? Perché era sceso nell’abisso?

Molti uomini avevano amato, anche più di lui, ma non erano scesi laggiù.

Cosa stava cercando veramente? Cosa aveva trovato?

Pensò al futuro a come avrebbe vissuto, dopo. Una vita a tremare di paura, a ripensare al vuoto che aveva vissuto, rintanato nella propria casa, un topo in trappola. Non sarebbe più riuscito a dormire di notte, non sarebbe più riuscito a vivere l’ebbrezza e la festa, sarebbe vissuto consolando lei e se stesso e, alla fine, sarebbe morto. Sapeva che quella volta non sarebbe tornato … la sua lira non sarebbe servita a niente. No, non poteva finire così, non era giusto; aveva fatto l’impossibile, si sentiva un dio; tutto questo non era nulla?

Era assurdo, assurdo… mentre avanzava sentiva il suo orgoglio spegnersi lentamente, la sua baldanza far posto ad orrore e disperazione. Vedeva la luce ma essa non era che una trappola, una ragnatela in cui si sentiva sempre più avvinghiato. Solo ora se ne accorgeva, ma ormai era tardi ed il momento della scelta si faceva inesorabilmente vicino. La scelta tra il nulla della Morte e l’illusione della Vita. Era perduto, e lo sapeva. Anche la più piccola fiaccola della sua speranza si era estinta come il focolare della sera. Doveva ancora scegliere e doveva farlo subito! Tremò. Fu tentato di voltarsi. Non lo fece. Non poteva tradirla! Lei era stata la sua vita, un tempo… già, un tempo… ma lei ora non era più… no, non poteva… non voleva… non…

Ad un tratto si fermò del tutto. Si mise ad ascoltare. Anche lei si era fermata. Voleva parlarle, voleva sentire la sua voce, ma dalla sua bocca uscirono solo sciocchi balbettii:”Tesoro… io…io…ecco, io…”.

Per la prima volta nella sua vita non aveva parole.

Non ce ne era bisogno; una voce soave, flebile ma decisa lo interruppe dolcemente: “Lo so, tranquillo -che bello era poterla ascoltare- non devi dire niente. Sapevo che sarebbe finita così, ancor prima di partire, a dir la verità. Tu sei diverso dagli altri uomini, lo sei sempre stato. Mentre loro facevano gli eroi e cercavano la guerra tu raccoglievi fiori e cantavi. Sapevo che avresti capito… non sentirti in colpa”.

“Se fossi stato un uomo più forte ora potremmo stare insieme. Forse avrei avuto il coraggio di morire con te, quando si presentò l’occasione. Ma ora è tardi, mi dispiace”.

“Di cosa? Di avermi amato, forse? Di aver composto canzoni in mio onore? Di avermi protetto, di avermi dato una casa ed un letto degno non di sposa, ma di regina? Credimi, è meglio così. Dopotutto, cosa sono io per il mondo? Il vento d’estate che spira e poi non c’è più. Una stagione, un nome senza significato…Euridice. Questo nome è vissuto solo nella tua arte e nel tuo ricordo. Vivi tu per me!”.

“Come potrò vivere d’ora in poi? Come potrò guardare i campi della mia infanzia? Ho conosciuto le tenebre ed il gelo. Ho scopertola Morte.  Persinoil sole sarà per me un miserabile inganno. Gli uomini non sono che formiche in attesa di essere bruciate. Non potrò più stordire me stesso.

A nulla varranno Dioniso e Demetra. Non inneggerà più a loro la mia lira, né alla vita, né all’amore. Vivrò evitando la luce e la sua menzogna!”.

“Allora voltati, Orfeo! Voltati e non avrai più bisogno della luce;  sarò io la tua realtà ed il mio volto sarà il sole, il sole che non tramonta mai. Il mio volto sarà i campi di Tracia e le pratoline estive, sarà l’Egeo e l’Olimpo, sarà la luce e la vita. Tu vivrai per il mio volto. Ed il mio volto vivrà nel tuo ricordo. Non celarmi ancora il tuo sguardo; mi basterà quello, soltanto quello, per sempre… così sarai uomo!”.

Fu questo il primo e l’ultimo grido di Euridice.

Orfeo esitava. Sudava, tremava ed aveva paura. Per tre volte tentò di voltarsi e non riuscì. Chiuse gli occhi, la fronte aggrottata . Tentava di ricordare il volto dell’amata… stava dando se stesso, ma era inutile. Perché, perché non ricordava il suo volto? Aveva bisogno di quel volto. Non voleva voltarsi. Diede il tutto per tutto. Desiderò con tutto stesso e si voltò di scatto. Non aveva più paura, ora. Era sereno. E aprì gli occhi.

Non vide un viso di donna. Non vide neanche il viso di un morto. Ciò che vide furonola Tracia,la Grecia, il mondo. Nella chioma dorata di Euridice c’era il mare: spesso l’aveva visto, nei suoi viaggi, ma non erano quelli i suoi ricordi. Ricordava quando era bambino, la prima volta che vide il mare, a Salonicco. Un mare increspato, al tramonto. Quella volta credette che il mare fosse fatto d’oro. Si era chiesto cosa ci fosse, laggiù in profondità; immaginava città sommerse e divinità nascoste. Avrebbe voluto immergersi. Avrebbe voluto scoprire il Mistero. Sarebbe annegato pur di scoprire quel dannato Mistero!

Gli occhi smeraldini di Euridice erano gonfi per le lacrime ma nulla avrebbe mai potuto intaccare la loro bellezza e nasconderne la profondità, inusuale per aver vissuto così poche stagioni. Orfeo rivide i campi della sua amata Tracia, si rivide adolescente mentre imparava a suonare la sua lira. La musica volava libera e leggera a quei tempi, quando le note raccontavano esperienze di pace ed alleviavano le fatiche di vacche e pastori. Allora era giovane; cercava l’amore. Ora trovava due fulgidi rivi, nati per risanare un terreno arido, fonti di speranza che, nella loro debolezza, elargivano vita.

Per ultimo osservò il suo sorriso: socchiuso e delicato, era un sorriso sincero, per nulla forzato. Gli ricordò una delle ultime passeggiate con la sua amata, verso la fine dell’inverno. Gli ricordò il primo raggio di sole della primavera, quel raggio che sembra debole e fioco, quel raggio che in realtà è sopravvissuto squarciando il cielo e le nuvole cupe, il raggio che è abbastanza forte da sciogliere la neve sul terreno e il gelo dei cuori. Quel raggio che porta gli uomini a dire: “Sono vivo!”.

Per un istante, un unico effimero attimo, le tenebre scomparvero.

Orfeo aveva voltato le spalle alla porta del mondo, quel mondo fatto di menzogne, il mondo ignobile e meschino che lo aveva cullato nell’ignoranza e nell’ebbrezza. Ora il mondo che aveva davanti a se gli raccontava una storia di amore. Davanti a se aveva l’amore di una donna che vede il proprio amante partire per la guerra, quella espressione di affetto e pietà sempre rivolta a coloro che sono accompagnati da un destino miserabile ed infelice.

Orfeo vide tutto questo. Ne rimase travolto. Aveva sentito molti oracoli e ordini divini. Ma a vincerlo fu il pianto di una fanciulla. La tremenda umanità di Euridice lo investì con tutto il suo calore, scosse il suo io fin nei recessi più estremi e ignoti della sua anima.

Infine scomparve. Euridice non c’era più, per sempre.

Orfeo rimase da solo, a fissare l’abisso.

Rimase a lungo da solo nella più completa oscurità. Nulla ormai aveva più senso per lui. Se qualcuno l’avesse visto probabilmente avrebbe pensato ad un morto od ad un dio. Sembrava un relitto in attesa di affondare. Cambiava spesso espressione e scuoteva la testa in preda ad una cupa disperazione, sollevando il piede per poi rimetterlo esattamente dove si trovava prima. Cadde in ginocchio, stremato da una violenta lotta interiore. Si rialzò… e si incamminò verso la discesa. Aveva deciso. Non avrebbe più sopportato di vivere. Non così, non in quel modo. Il suo destino, il destino di ogni uomo era già stato scritto, apparteneva al sangue. Era ineluttabile. C’era da chiedersi perché venire al mondo, allora. Per perdere tutto? Preferiva scegliere da solo la propria fine.

Gli dispiaceva, per Euridice. A cosa sarebbe valso vivere?

Nemmeno il suo volto l’aveva cambiato. Non era cambiato nulla.

No, non era vero! Qualcosa era cambiato. Orfeo ora ricordava il suo volto; si, lo ricordava e non l’avrebbe dimenticato mai più. Quel volto non andava sprecato! Quel volto era tutto!

Si voltò e si diresse di corsa verso l’uscita. Talvolta si fermava per guardare indietro, salvo poi tornare a correre. Giunse alla soglia e sbirciò fuori. Faceva fatica ad aprire gli occhi ma dopo un’po’ si abituò alla “nuova” luce. La realtà che si trovò davanti non sarebbe stata più la stessa per lui. Lo sapeva. Diede un’ultima occhiata all’antro. Sarebbe dovuto tornarci, un giorno. Si riempì di un’incommensurabile tristezza. Ma stavolta era pronto.

Mosse il primo passo verso l’esterno.

Quel giorno Orfeo non fu felice. Non lo sarebbe stato mai più.

Quel giorno Orfeo si sentì solamente libero.

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