5-MeO-DMT

Era un periodo nero. Più tardi capii che quando si parla di fasi esistenziali non ci si può mai affidare a definizioni monocromatiche, ma quel periodo io lo vedevo tutto quanto nero. Scendevo pallido dalle mura e mi infilavo nelle scalette più nascoste. Tiravo fuori le cuffie dalla tasca destra della giacca e passavo venti minuti a cercare di districarle. Solo dopo porta San Giacomo, in genere, riuscivo a mettermele finalmente senza nodi alle orecchie. Poi guardavo il telefono, aprivo la musica e affidavo alla nebbia disperata qualche parola sospirata: “E adesso che cazzo ascolto?”.
Fatto sta che appena mi decidevo per Mio fratello è figlio unico andavo agli album ed il telefono, come ad insultarmi dopo una giornata passata ad insultarmi da solo, recitava sempre: “(nessun album)”. Apri la scocca sul retro, rimuovi la batteria, solleva la MicroSD e soffiaci sopra, poi rimetti la batteria, riaccendi e con la scocca posteriore ancora in mano inserisci la data esatta e l’ora che tiri ad indovinare. Le sette di sera (poi all’obliteratrice del primo pullman venivo a sapere che erano solo le diciassette e trentasei, sempre le diciassette e trentasei).
Sceso dal primo pullman mi si apriva il bivio per arrivare bene o male a casa e la domanda diventava: “E adesso dove cazzo vado?”. All’inizio mi piaceva anche quella sensazione di non sapere dove andare, cosa fare, chi cercare, chi far finta di incontrare, poi me ne annoiai. Era tutto così grigio, finto, inconcludente. La riproduzione casuale intanto mi cantava nelle orecchie “Scusa amore devo andare / ho bisogno di fuggire / da questo divenire che mi fa / un po’ paura e un po’ disgusto” ed io ci credevo davvero a questo divenire che non mi faceva credere a niente di quello che avevo intorno, per questo decisi che dovevo fuggire. Avevo bisogno di fuggire.
Avevo già vissuto varie esperienze con mescalina, emmeddì, salvia divinorum, acidi, grosse dosi di caffeina e poi, beh, cannabis. La faccia da drogato ce l’avevo tutta e mi piaceva pure: occhiaie perenni, ciuffo che adombra segreti di notti passate, bocca semichiusa e denti appena digrignati. Le vecchie mi dicevano le avemarie e le quartine si sforzavano di immaginare l’inimmaginabile delle mie serate: più che nei trip mi nascondevo nella sagoma di fascino fattone che mi ero ritagliato attorno, ma questo è un altro discorso.
Tutto quanto era nero, o meglio grigio-nero, ed io volevo andare a fondo della mia personalissima fuga psicotropa. Volevo nascondermi nelle profondità della mia mente incestuosa-osé. Per questo cominciai a sperimentare droghe nuove. Nulla era come perdere concezione del proprio corpo, alzarsi in uno spazio buio e lontanissimo, ascoltare i discorsi degli gnomi tra i miei capelli, guardare la gente cambiare forma e raccontarmi segreti di popoli bianchissimi che si davano la mano in cerchio, intorno a me. Nulla era come quelle massimo diciotto ore di altro. Altro definitivo.
Le prime volte furono tutto sommato positive: andavo su erowid.org, cercavo droghe interessanti, me le procuravo dal vecchio Sté, aspettavo la situazione giusta e mi sottoponevo ad una sorta di test. Tutto quanto intorno si mescolava in modi diversi a seconda delle sostanze, che erano ancora pressoché innocue. Poi venne la 5-MeO-DMT.
Me ne andai a Brescia a mangiare il migliore kebab della Lombardia con lo zaino più pesante della mia vita: saranno stati sette milligrammi e mezzo, giù di lì. Il vecchio Sté si accendeva una paglia tranquillissima e mi guardava come a dire: “Sei sicuro di voler continuare il gioco dello psiconauta?”. Sì, che ero sicuro, cazzo me ne fregava a me di tornare a casa? Così la assunsi via pipa. Sette milligrammi e mezzo.

***

La collina è al suo posto, all’inizio. Noi siamo seduti un po’ sdraiati sulla collina, zona Gussago, Franciacorta, all’inizio. Poi s’intravede il primo rosa del tramonto ed io ho addosso quella tipica sensazione di non sapere cosa fare, non sapere cosa aspettarmi prima del viaggio. Boom.
Centomilacinquecentoventicinque centrali termonucleari mi esplodono dentro ed è l’energia: fortissima energia cinetico-emozionale che mi sparpaglia in giro i nervi. Boom. Mi alzo velocissimo e faccio per allontanarmi: il vecchio Sté che mi prende per un braccio e parla lentissimo rispetto al mio pensiero: “sei partito?” (amplificare esponenzialmente le vocali), il prato che non è un prato e mi scorre folle futurista sotto alle clark tarocche, polimeri, polimeri, delicatissimi polimeri, un dado a sedici facce tutto rotante e coloratissimo, il tramonto, il tramonto è così, tremo un po’, poi smetto, poi tremo, poi oddio.
Il mio corpo non è più mio e va beh, ma l’orrore inizia con la mia voce rallentata e abbassata che mi ripete “niente, smettila, niente” e non sono io a dirlo. Non posso riconoscere che una sorta di prigione intangibile che identifico nel pugno di un me stesso enorme e senza volto a sua volta nel pugno di un altro me stesso enorme e senza volto… “Niente” – il concetto di io è già in crisi da un pezzo e l’anima muore e nulla esiste, grido – “smettila” – continuo a sprofondare tipo in un burrone violascuro infinitamente profondo e che fine ha fatto il vecchio Sté, grido – “niente” -arrivo in un incalcolabile spazio siderale vuoto che mi ricorda un po’ il Comprabene, grido. Grido, grido, grido fuori tutto, ma non c’è un dentro da cui gridare. Nessuno mi sente. Nessuno mi sente. Nessuno c’è.
Grido.

***

“Arrivi tu / il mondo è acceso / quello che era mio / tu l’hai già preso / e intorno a me / lo spazio è immenso / che persino io / non ho più senso”. Mina cantava forte nelle cuffiette bianche appoggiate sulle spalle e la sua voce si perdeva nel vociare delle sciure dell’autobus. Ero sul nove, seduto con i piedi al riscaldamento. Lei era salita, come l’avevo intravista mi ero tolto le cuffie ed ora ero tutto trepidante di sentire la sua voce. “Ciao”. “Hei”, risposi e sorrisi. Si capiva lontano chilometri che le volevo un gran bene. Ero tutto assorbito, tutto preso da lei, dai suoi capelli, dai suoi occhiali, dai suoi occhi. Più che amore liceale era un senso di gratitudine devastante a spostarmi completamente verso di lei. Mi alzai e le dissi di sedersi pure, lei mi abbracciò. Ricambiai e nessuno si sedeva. Appena staccato da lei mi allontanai per guardarla meglio. Dovevo essere sicuro che lei fosse lì. Dopo quella DMT dovevo essere sicuro della realtà, in generale. Le cose si perdevano ancora un po’ come dietro finestrini appannati.
La prima cosa che vidi dopo quello storico bad trip furono i suoi occhi. Sembra una stronzata, ma è così. Prima del trip ricordo il tramonto, poi l’abisso e in dissolvenza sul tramonto i suoi occhi. Non so che fine abbia fatto quel pomeriggio il vecchio Sté, che forse non è mai esistito. Non so che danni irreparabili abbia tuttora sotto i capelli. Quel pullman bucolico in quel freddo dicembre non andava verso la fine di un anno terribile, non hanno senso le definizioni monocromatiche per le fasi esistenziali: mi ero solo perso qualcosa, certo, qualcosa che non so dire. C’era qualcosa, qualcosa tipo un regalo inaspettato, che mi stava sotto agli occhi ed io guardavo da un’altra parte. So solo che in qualche modo c’entrano il tramonto ed i suoi occhi. I suoi occhi. Lei era lì e forse c’era sempre stata, anche prima di salvarmi dal trip. Anche prima. Se era reale doveva essere per sempre. Lei era lì.

 

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